In ricordo di Andrea Mascagni 1
L’ho conosciuto nel 1975, quando venne nella mia scuola a ricordare, insieme a Bonvicini, il 30° anniversario della Resistenza, il primo anniversario “tondo tondo” ricordato dopo decenni di Guerra Fredda in seguito alle nostre richieste di apertura della scuola alla societa’. In lui, comunista sempre pronto al confronto piu’ che al dialogo, vedevamo ingenuamente quella continuita’ storica con la nostra azione politica antifascista. Intervenni pubblicamente criticandolo per il fatto che la sua ricostruzione della Resistenza non era molto diversa da quella del liberale Bonvicini e lui rispose dicendo che i valori unificanti antifascisti erano molto piu’ importanti delle differenze. Alla fine mi si avvicino’, invitandomi ad andarlo a trovare “in federazione”.
Altre volte ero entrato nella sede del PCI, dove si svolgevano le riunioni dell'”Interscolastico” – un coordinamento studentesco egemonizzato dalla FGCI, mentre le riunioni del CPS, il “Collettivo Politico Studentesco”, egemonizzato dai gruppi della sinistra extraparlamentare, si svolgevano nella sede di “Lotta Continua” -, ma entrare per incontrare Mascagni era un’altra cosa, era come andare in un convento per incontrare il priore o andare al Vaticano per incontrare il Papa. Mascagni negli anni Settanta e Ottanta nel PCI bolzanino era la persona piu’ autorevole e forse anche autoritaria. Bastava un suo sguardo, per non parlare dei suoi interventi, per zittire le numerose voci di dissenso che si levavano, spesso in maniera contraddittoria, all’interno del partito, come quella di Grazia Barbiero, accusata negli anni Ottanta di essere filolangeriana e sostituita da Viola, accusato negli anni Novanta da altri di essere filo-SVP. Quell’incontro, come tutti i numerosi altri dei trent’anni successivi, fu ricco di informazioni, spiegazioni, suggestioni. “Pochi lo sanno – mi disse -, ma io sono laureato in chimica, e ho sempre applicato anche in politica il metodo analitico, che consiste nello scomporre le realta’ complesse in piccoli elementi non ulteriormente divisibili per verificare i rapporti che tra questi si determinano.”
In lui, come in tutti i politici di quel livello culturale e di quella generazione di dirigenti i vari partiti della “Prima Repubblica”, c’era quasi un’ossessione della coerenza. Non riuscivano ad affrontare nessun argomento senza inserirlo giustamente in un quadro storico e politico, diacronico e sincronico, di vasto respiro; esattamente l’opposto dei loro epigoni che affrontano qualunque argomento sulla base dei sondaggi e dell’opportunita’ politica, cambiando radicalmente prospettiva politica anche su argomenti importanti con estrema nonchalance, quasi infastiditi quando qualcuno fa loro notare le loro incongruenze.
Questo rigore non gli consentiva pero’ di uscire da una visione lineare dello sviluppo storico, che per decenni lo ha portato a ribadire che solamente quando i sudtirolesi sarebbero stati assolutamente ripagati dei torti subiti durante il fascismo e la prima autonomia, quella regionale-trentina che ha portato al trionfo dei nazionalisti sudtirolesi, e quando si sarebbero sentiti assolutamente sicuri avrebbero potuto articolarsi politicamente. Questo gli ha fatto accettare una concezione benedikteriana ed etnico-revanchista dei primi decenni della seconda autonomia, quella provinciale-sudtirolese, che ha portato al trionfo dei nazionalisti altoatesini, e non gli ha consentito di capire che non tutti quelli che criticavano l’autonomia, dalla Neue Linke-Nuova Sinistra in poi, erano necessariamente dei nazionalisti.
Le sue motivazioni erano sicuramente nobili. Quando lotto’ per l’autonomia provinciale era consapevole che trasferendo il potere politico all’ambito provinciale il suo gruppo linguistico ed il suo partito politico sarebbero stati una minoranza, ma lo considerava un prezzo da pagare. Non era come Berloffa che, tagliando i cordoni ombelicali con Andreotti, era consapevole che sarebbe diventato lui l’Andreotti locale, continuando ad occupare politicamente tutte le vicepresidenze italo-SVP-determinate anche se non piu’ dotato di consenso politico da vent’anni, in un rapporto di appalto e subappalto politico che poco ha a che vedere con uno sviluppo politico e democratico dell’autonomia, che viene continuamente presentata come un patrimonio politico durante i periodi elettorali per poi essere gestita in chiave etnica o pseudoetnica nei periodi successivi.
Nel periodo di scontro tra Viola e Margheri, due esponenti del suo stesso partito che stavano contemporaneamente in giunta provinciale il primo e all’opposizione il secondo, in un momento di sconforto mi disse che l’ingiustizia dell’annessione del Sudtirolo era stata ripagata ai sudtirolesi con l’autonomia, ma che gli altoatesini probabilmente non sarebbero mai stati in grado di diventare politicamente e culturalmente pienamente autonomisti. “Forse – mi disse – se nel 1945 o nel 1972 l’Italia avesse trasferito tutti gli altoatesini nelle vecchie province d’origine avrebbe causato un altro trauma, ma avrebbe evitato una lunga e lenta agonia.”
Bolzano, 7 febbraio 2004.
Giorgio Delle Donne
1 Editoriale pubblicato sull'”Alto Adige” l’ 8 febbraio 2004.