Stato, nazione & popolo1
Come spesso accade, anche quest’anno Cossiga ha scosso il torpore ferragostano locale con un’altra delle sue esternazioni. Sfoderando quella cultura politica che molti esponenti della “prima repubblica” possedevano – uno dei non pochi elementi che la “seconda repubblica” spesso ci fa rimpiangere – ha ricordato le classiche definizioni di Nazione, Stato, Popolo e Patria, tutte scritte in maiuscolo, ed una serie di citazioni per affermare che la nazione austriaca e’ un’invenzione sviluppatasi a partire dalla fine della Grande Guerra per precise scelte politiche, e quindi i sudtirolesi sarebbero una minoranza tedesca. Ne e’ seguita una reazione stizzita da parte di molti esponenti politici sudtirolesi, i quali dopo l’infelice esperienza dell’adesione plebiscitaria della popolazione locale all’avventura pangermanista hitleriana, nel secondo dopoguerra hanno preferito orientarsi politicamente verso l’Austria piuttosto che verso la Germania, visto che gli austriaci si sono presentati alle trattative di pace come le prime vittime del nazismo, fatto di per se’ esatto dal punto di vista cronologico ma sbagliato dal punto di vista logico e politico. Del resto forse gli austriaci non saranno una nazione, ma sicuramente sono un popolo che e’ riuscito a far credere che Hitler fosse germanico e Beethoven austriaco, la qual cosa non e’ indifferente se si pensa che la storia e’ un elemento costitutivo dell’identita’ nazionale, collettiva ed individuale.
Cossiga non ha ne’ completamente torto ne’ completamente ragione. Ha ragione quando parla della costruzione dell’identita’ nazionale austriaca come fenomeno novecentesco, conseguenza della costruzione dello Stato austriaco dopo la distruzione dello stato plurinazionale precedente. Ha torto se pensa che le identita’ nazionali precedenti non siano anch’esse delle costruzioni di politica culturale, anche se meglio riuscite, tanto da farle sembrare degli elementi “naturali”.
La riflessione storiografica sui concetti di stato, nazione e popolo sviluppatasi negli ultimi due secoli e’ stata di enorme rilievo quantitativo e qualitativo. Basti pensare solamente al dibattito sul carattere naturalistico o volontaristico del concetto di nazione e del conseguente concetto di minoranza, affrontato in Italia durante il Risorgimento soprattutto per quanto riguarda le minoranze religiose ed in seguito anche per quanto riguarda le minoranze nazionali. Nell’Ottocento ampio e’ stato il dibattito sulla lingua e sul rapporto lingua/dialetto, vista la centralita’ affidata alla lingua nella composizione dell’identita’ nazionale, ma l’importanza data alla questione della cittadinanza, vista nel rapporto di diritti e doveri tra il cittadino e lo stato impediva ogni considerazione sulle minoranze linguistiche ed imponeva un’identita’ nazionale totalizzante. All’interno dello stato nazionale italiano, considerato etnicamente omogeneo, il dibattito sulle minoranze riguardava quasi esclusivamente quelle italiane del Trentino e della Venezia Giulia all’interno dell’Impero austro-ungarico evidentemente plurinazionale. Lo stato europeo ottocentesco era tendenzialmente mononazionale e quello plurinazionale era visto quasi come un retaggio del passato, vista la “naturale” tendenza di ogni popolo-nazione – comunita’ legata da elementi storici, linguistici e culturali – di fondare un proprio stato – comunita’ legata dalla condizione giuridica -, attraverso la cittadinanza, applicando i concetti elaborati nella Francia giacobina e napoleonica. Poco importavano la presenza di numerosi nuclei di alloglotti, ne’, tantomeno, le enormi differenze culturali regionali che si confrontarono ed in parte amalgamarono solamente durante la Grande Guerra, i cui esiti portarono all’annessione forzata di minoranze etniche consistenti, che diventarono piu’ coscienti e battagliere conseguentemente alla politica snazionalizzatrice dell’epoca fascista che segui’ il breve periodo liberale seguito alla fine della guerra, con dei timidi tentativi di riconoscere forme di autonomia culturale ai gruppi minoritari.
Ma come si costruiscono le identita’ collettive? Analogamente a quelle individuali, anche le identita’ collettive non sono un dato biologico, ma culturale, in un processo di costruzione, decostruzione e ricostruzione continuo. Benedict Anderson nel volume “Comunita’ immaginate” ricostruisce la storia di queste costruzioni collettive analizzando fonti inconsuete, poco istituzionali, ma fondamentali come la stampa periodica, i bollettini parrocchiali e quant’altro puo’ avere contribuito a formare, nell’epoca della “grande trasformazione” territoriale, sociale e culturale seguita all’affermazione del capitalismo industriale ottocentesco, quelle comunita’ che per evidenti ragioni numeriche non possono ritrovarsi intorno ad un tavolo o in una sala riunioni, come una famiglia o un consiglio di amministrazione aziendale, ma che richiedono continui sforzi di immaginazione per la loro costruzione e per la loro identificazione. Comunita’ immaginate, appunto, ma non per questo meno concrete di altre, e per le quali milioni di persone hanno perso la vita nei secoli scorsi, piu’ o meno volontariamente. Gli stati nazionali moderni sono costruzioni sette-ottocentesche che hanno investito molto nella costruzione di storie, lingue e tradizioni comuni per organizzare il loro futuro. Come per ogni individuo e/o comunita’, tanto piu’ si hanno progetti riguardanti il futuro, tanto piu’ si valorizza il passato. Chi vive “alla giornata” non pianifica il futuro e non si interessa del passato. Le storie nazionali sono state costruite come biografie (collettive) nazionali, e la cartografia, la museografia ed i censimenti somigliano agli album fotografici, i luoghi della memoria e alle analisi dei budget disponibili.
Come scrive l’antropologo Carlo Tullio-Altan, le diverse prospettive relative a diversi casi di studio concordano nell’affermare che alcuni elementi costitutivi dell’identita’ etnica sono comunque presenti: l’epos, la trasfigurazione simbolica della memoria storica, in quanto celebrazione comune del passato; l’ethos, la sacralizzazione di norme ed istituzioni di origine civile e religiosa, sulle cui basi si costruisce la socialita’ del gruppo; il logos, attraverso cui passa la comunicazione sociale; il genos, la trasfigurazione dei rapporti di parentela; il topos, l’immagine simbolica della patria e del territorio.
Per chi vive in Alto Adige/Suedtirol, terra da sempre plurilingue, dove nell’ultimo secolo i confini sono stati spostati piu’ volte, ribaltando i concetti di maggioranza e minoranza, e dove negli ultimi dieci anni si e’ sviluppata una lenta ma continua immigrazione proveniente da paesi dell’est europeo ed extraeuropei, questo dibattito puo’ costituire un’utile opportunita’ per ridiscutere a livello culturale e politico dei sentimenti collettivi di carattere nazionale, spesso erroneamente considerati elementi naturali delle identita’, per vedere come queste identita’ collettive sono il risultato, peraltro non necessariamente definitivo, di processi culturali complessi e di lungo periodo, sottoposti negli ultimi anni a rapide evoluzioni.
I popoli sono fenomeni sociali e culturali, non biologici, e la convinzione che gli elementi costitutivi delle culture nazionali abbiano a che fare con la biologia e non con la storia puo’ portare a considerare immutevoli certe caratteristiche e a porre in ordine gerarchico le culture, come se dovessero necessariamente percorrere tutte le stesse tappe dello stesso percorso. Questa e’ la base culturale del nazionalismo e del razzismo.
La presenza sempre piu’ numerosa di famiglie nelle quali i genitori sono appartenenti a culture diverse, nelle quali i figli crescono naturalmente in un contesto bilingue, ci ricorda che, anche se viene richiesta una dichiarazione d’appartenenza ad una sola comunita’ linguistica, nei fatti e’ possibile crescere con piu’ riferimenti culturali. Questo e’ ovviamente possibile anche per chi cresce in famiglie monolingui, purche’ ci sia la volonta’/curiosita’ di apprendere le diverse lingue e le diverse culture che da sempre caratterizzano questo territorio dalla particolarissima storia.
La storiografia locale e’ stata oggetto di forti strumentalzzazioni e di scelte politiche che molto spesso sottendono operazioni culturali, dove spesso si tende a naturalizzare il concetto di etnicita’, spesso disinvoltamente utilizzato senza un opportuno approfondimento del suo significato.
In questo settore una ricerca importantissima e’ stata svolta negli anni sessanta dagli antropologi John Cole e Eric Wolf che, incaricati da due universita’ americane, hanno soggiornato tra il 1961 e il 1969 a Tret e St. Felix, in alta Val di Non, due paesi vicinissimi ma divisi dalla frontiera amministrativa che divide la provincia di Bolzano da quella di Trento. I due antropologi, trasferiti con le famiglie per lunghi anni nei due paesi, hanno cercato di ricostruire la storia e le tradizioni che hanno portato queste due comunita’ a sentirsi rispettivamente italiana-trentina-tirolese e tedesco-tirolese, relativizzando il concetto di appartenenza etnica e subordinandolo ad ampie correnti di economia politica, di scelte ideologiche e culturali, ribadendo quindi il concetto di etnicita’ come pratica sociale continua e collettiva e svolgendo una importantissima demistificazione del nazionalismo etnicista.
Uno dei cambiamenti di mentalita’ piu’ vistosi nel Novecento e’ stato l’abbandono del concetto di razza, anche conseguentemente all’uso politico di questo concetto da parte dei regimi dittatoriali, in favore di una gamma molto articolata e sfumata di concetti, come identita’ etnica o nazionale. Nessuno crede piu’ che i popoli siano realta’ biologiche, ma spesso si propongono concetti di gruppi etnici o nazionali come se fossero entita’ da sempre esistite e non delle costruzioni identitarie continuamente operanti a livello collettivo, mentre i potenti miti fondativi delle nazioni spesso sono stati costruiti nel corso dell’Ottocento.
Anche la demografia ha spesso contribuito alla costruzione di questi miti fondativi, con l’utilizzo a volte spregiudicato di categorie come la popolazione originaria, allogena, straniera, immigrata, utilizzate per rivendicare l’appartenenza a gruppi avvantaggiati da particolari condizioni politiche e sociali. La demografia e’ stata quindi spesso utilizzata per oggettivare la nazione, concetto storico-culturale, nella popolazione, concetto “quasi naturale”. Cosi’ come la popolazione concepita dai demografi a partire dalla Grande Guerra si collocava tra la nazione e la razza, l’etnia ora si colloca tra la popolazione e la razza, quindi in una posizione ancora piu’ vicina alla biologia, ignorando appartenenze plurime e ponendo le basi per la gerarchizzazione dei gruppi.
Chi avesse tempo e voglia potrebbe sempre provare a declinare queste considerazioni sulla realta’ territoriale provinciale, e vedere come questi concetti si possano applicare o meno alle diverse comunita’ che qui sono state piu’ o meno fortemente e fortunatamente costruite, nel corso del tempo.
Bolzano, 24 agosto 2005.
Giorgio Delle Donne
1 Editoriale pubblicato sull'”Alto Adige” il 26 agosto 2005.