Il dopo Magnago1
Di fronte al frammentato e contraddittorio balbettio politico di questo inizio secolo i coerenti discorsi dei politici del Novecento che si sono battuti per tutta la vita per una causa o un ideale ci appaiono quasi sempre degni di rimpianto, anche se non sempre lo meriterebbero.
E’ capitato lo scorso febbraio, alla morte di Pietro Mitolo, leader indiscusso della destra italiana dell’Alto Adige. Cresciuto orgogliosamente italiano e fascista, ha aderito alla Repubblica Sociale e, dopo la sconfitta, ha lottato per anni contro il principio dell’autonomia, non contro lo spirito etnocentrico ed accentratore con il quale la DC ha attuato il primo statuto e l’SVP il secondo; contro i tedeschi, non contro il partito etnico che li rappresentava; contro il bilinguismo, non contro il patentino; contro il principio della proporzionale, non contro le assurdita’ della sua applicazione; contro la democrazia, non contro la degenerazione partitocratica; contro la Costituzione, non contro la sua mancata applicazione, ecc., ed ha fortunatamente perso ogni sua battaglia. Eppure, di fronte ai suoi eredi che si prendono a schiaffoni, incapaci di elaborare una linea politica coerente che non sia basata sulla denigrazione non dico dell’avversario politico, ma nemmeno del concorrente dello stesso partito, viene quasi da rimpiangere una persona coerentemente fascista ed antiautonomista.
Da martedì assistiamo ad un discorso di elogio pubblico di Silvius Magnago. Cresciuto orgogliosamente tedesco, pur appartenendo ad una famiglia bilingue, si e’ schierato con una sola delle sue radici in tempi non sospetti e sicuramente non per opportunismo, quando essere tedeschi significava dovere frequentare scuole italiane ed essere sottoposti ad incredibili angherie applicate all’italiana. Optante per il Reich nazista, non si e’ mai pentito della scelta e, rientrato alla fine della guerra, si e’ sempre impegnato politicamente per un partito statutariamente etnico che ha operato, considerando irraggiungibile l’obiettivo dell’autodeterminazione, per un’autonomia che coincidesse con i confini amministrativi del territorio nel quale il proprio gruppo era ed e’ schiacciante maggioranza, facendosi tutelare in quanto minoranza nazionale e gestendo il potere in quanto maggioranza locale.
Nel dicembre del 1948, replicando al consigliere anziano Menapace che presiedeva la neocostituita assemblea regionale, il quale auspicava di trasformare la regione in una piccola Svizzera, modello di integrazione culturale, Magnago, dopo avere ricordato le conseguenze della politica fascista in Alto Adige, sorvolando elegantemente sui venti mesi di dominazione nazista, ribadi’ le allora comprensibili paure della popolazione sudtirolese e tuono’:
“Solo quando tutti i gruppi si sentiranno liberi da timori e paure si avra’ la premessa per quella collaborazione di cui si continua a parlare. Fino a quando un gruppo o l’altro ha paura di soccombere, questa premessa psicologica manca. Quando questa paura non ci sara’ piu’, la collaborazione verra’ da se’.”
Per tutta la vita Magnago – e con lui tutto il partito – e’ stato l’abile e pragmatico imprenditore politico di questa paura, anche quando, con l’emanazione del secondo statuto, l’obiettivo politico dell’autonomia provinciale era stato raggiunto.
Il dopo-Magnago politicamente non e’ iniziato martedi’ 25 maggio 2010, ma nel 1989, con la successione di Durnwalder, e chi pensa che la morte di Magnago possa essere una data periodizzante dal punto di vista politico commette un grosso errore di valutazione. Il dopo-Magnago dura oramai da oltre vent’anni ed affonda le sue radici nei trent’anni precedenti, in un’ottica di politica etnocentrica dove, a cominciare proprio dalla sua esperienza personale, ogni discorso relativo alle identita’ personali plurime ed alla ricchezza dovuta alla presenza di piu’ culture nello stesso territorio era stato sacrificato in nome dell’identita’ etnica vista quasi come un dato biologico immutabile e delle rivendicazioni che non potevano portare ad una concezione territoriale dell’autonomia – tipica di una cultura democratica e socialista come quella dell’austromarxismo ottocentesco, che non a caso non ha mai attecchito in questa terra – ma ad una realta’ politica dove i vinti, diventati vincitori, nelle diverse date periodizzanti del ventesimo secolo si sono sempre immediatamente dimenticati delle sorti subite, invertendo i ruoli ma lasciando inalterata la trama e alimentando la paura.
Ribadendo quindi un giudizio positivo per la tenacia e l’onesta’ del politico nel raggiungere il proprio obiettivo, tanto piu’ significativa se confrontata con i politici che gli sono succeduti nel proprio e soprattutto nell’altro gruppo linguistico locale, penso che chi dimentica come e perche’ si e’ arrivati a questa autonomia – invidiabile per quanto riguarda il bilancio, le competenze autonomistiche e l’efficienza amministrativa, ma assolutamente etnocentrica e non basata sui principi delle pari dignita’ ed opportunita’ dei gruppi linguistici, ne’ tantomeno territoriale – e, soprattutto confrontando la situazione locale attuale con quella delle altre regioni italiane, pensa che si debba ringraziare Magnago per quello che ha fatto considerandolo leader politico del territorio e non delle sole minoranze nazionali, dovrebbe andare a cercare altrove esempi di politici interetnici.
Bolzano, 27 maggio 2010.
Giorgio Delle Donne
1 Editoriale pubblicato sull’«Alto Adige» il 28 maggio 2010.