Comunità immaginate 1
La recente polemica sul censimento ha riproposto per l’ennesima volta la questione della consistenza dei gruppi etnici in Alto Adige. C’e’ chi ha parlato di “marcia della morte” degli altoatesini, utilizzando lo stesso slogan che utilizzava l’SVP negli anni Cinquanta, e chi ha ricordato che oltre alla quantita’ – elemento fondamentale, visto che le risorse vengono spartite sulla base di quei dati – e’ importante la qualita’, auspicando una maggiore integrazione del gruppo in via di emarginazione, assimilazione, estinzione.
Vorrei spostare per un attimo l’attenzione sul concetto stesso di comunita’, approfittando della lettura di alcune delle decine di volumi pubblicati negli ultimi anni, anche conseguentemente al riemergere dei nazionalismi e degli etnofederalismi in tutta Europa, ed in particolar modo in Italia, libri che non si riferiscono all’Alto Adige, ma possono essere utili anche per capire che i problemi locali possono essere interpretati e vissuti meglio se inseriti in un contesto piu’ ampio.
Il primo libro, un classico della sociologia, e’ “Una nazione di estranei” di Vance Packard, l’autore de “I persuasori occulti” e di altri saggi che negli anni Sessanta hanno analizzato il sistema della comunicazione di massa. Ambientato negli Stati Uniti, paese simbolo della mobilita’ territoriale e della precarieta’ sociale – dove mediamente un uomo cambia 14 volte la residenza nel corso della propria esistenza ed ogni anno il 20% della popolazione si trasferisce -, e’ stato pubblicato nel 1972, ma, come diceva mio nonno, “e’ inutile andare in America per vedere com’e’, tanto sara’ l’America che, tra vent’anni, verra’ qui”, e puo’ risultare utile per vedere come si formano le identita’ territoriali in comunita’ che non hanno radici profonde e manifestano sindromi da sradicamento, nomadismo territoriale e professionale, isolamento individuale, perdita o assenza di senso comunitario. Packard individua cinque forme di sradicamento: quella di coloro che si trasferiscono in luoghi sconosciuti; quella di coloro che, pur rimanendo nello stesso luogo, appartengono a comunita’ in via di disgregazione; quella di chi vive in quartieri di recente costruzione, con rapporti di vicinato anonimi; quella di chi vive condizionato dai rapporti e dagli orari professionali; quella di chi sfascia le unita’ famigliari, primo nucleo identitario. Nei movimenti migratori si spostano solitamente le fasce piu’ alte e piu’ basse della popolazione: emigra chi ha una posizione professionale che gli da’ un mercato del lavoro molto ampio o chi non ha nulla da perdere. La classe operaia e quella contadina hanno invece una tendenza a costruire la propria esistenza sui legami di parentela, etnici e territoriali, cercando, in caso di trasferimenti, di insediarsi nei quartieri etnicamente omogenei, che si trasformano quindi in ghetti etnici che riproducono e perpetuano la realta’ di provenienza o dove i gruppi di recentissima immigrazione spesso sostituiscono i penultimi arrivati, che, una volta integrati, tendono ad uscire dal ghetto trasferendosi. Packard conclude la sua analisi ricordando che gli sradicati non hanno senso della comunita’, che non e’ solamente una somma-coacervo di individui, ma un insieme di rapporti sociali intrecciati e stratificati nel tempo. L’associazionismo sociale e la partecipazione politica non possono non essere interessate al fenomeno. Una ricercatrice di Wilton, cittadina cresciuta rapidamente in seguito alla costruzione di alcune grosse fabbriche ed aziende, ricordava che “e’ poco probabile che le persone di passaggio entrino nel corpo dei pompieri volontari. E viceversa il loro arrivo in massa nella citta’ ha fatto aumentare talmente i prezzi delle abitazioni che chi avrebbe avuto tempo ed interesse a prestare servizio come vigile del fuoco volontario non poteva piu’ in alcun modo permettersi di abitare a Wilton”. Mentre, per quanto riguarda la partecipazione politica, “le persone di passaggio, con il loro agnosticismo e con la loro indifferenza, contribuiscono a mantenere nelle cariche i politicanti di mestiere altrove improponibili”.
Ma come si costruiscono le identita’ collettive? Analogamente a quelle individuali, anche le identita’ collettive non sono un dato biologico, ma culturale, in un processo di costruzione, decostruzione e ricostruzione continuo. Benedict Anderson nel volume “Comunita’ immaginate”, edito nel 1983 e tradotto in italiano nel 1996, ricostruisce la storia di queste costruzioni collettive analizzando fonti inconsuete, poco istituzionali, ma fondamentali come la stampa periodica, i bollettini parrocchiali e quant’altro puo’ avere contribuito a formare, nell’epoca della “grande trasformazione” territoriale, sociale e culturale seguita all’affermazione del capitalismo industriale ottocentesco, quelle comunita’ che per evidenti ragioni numeriche non possono ritrovarsi intorno ad un tavolo o in una sala riunioni, come una famiglia o un consiglio di amministrazione aziendale, ma che richiedono continui sforzi di immaginazione per la loro costruzione e per la loro identificazione. Comunita’ immaginate, appunto, ma non per questo meno concrete di altre, e per le quali milioni di persone hanno perso la vita nei secoli scorsi, piu’ o meno volontariamente. Gli stati nazionali moderni sono costruzioni sette-ottocentesche che hanno investito molto nella costruzione di storie, lingue e tradizioni comuni per organizzare il loro futuro. Come per ogni individuo e/o comunita’, tanto piu’ si hanno progetti riguardanti il futuro, tanto piu’ si valorizza il passato. Chi vive “alla giornata” non pianifica il futuro e non si interessa del passato. Le storie nazionali sono state costruite come biografie (collettive) nazionali, e la cartografia, la museografia ed i censimenti somigliano agli album fotografici, i luoghi della memoria e alle analisi dei budget disponibili.
Nel volume intitolato “Voglia di comunita’”, edito nel 2001, traduzione non letterale dell’originale “Missing Community”, comunita’ scomparse, il sociologo Zygmunt Baumann ricorda che l’ansia e l’insicurezza dei cittadini postmoderni aumentano progressivamente anche a causa della competitivita’ che la riorganizzazione capitalistica richiede continuamente e conseguentemente cresce il desiderio di una comunita’ “calda” nella quale rifugiarsi: la famiglia, la piccola comunita’, l’etnia, che diano accoglienza, sicurezza e benessere. Pochi pero’ sarebbero disposti a pagarne il prezzo in termini di obbedienza, liberta’ ed autonomia. In questa dicotomia tra sicurezza e liberta’, comunita’ ed individualita’, si gioca il destino dell’essere umano che, ne’ personalmente ne’ collettivamente potra’ mai realizzare la speranza, ma nemmeno smettere di sperare. Concetti ribaditi nei recenti “La solitudine del cittadino globale”, edito nel 2000, e “Comunita’ liquide”, edito nel 2001, dove si ricostruiscono le vicende degli ultimi vent’anni, caratterizzate dalla perdita dei sentimenti identitari collettivi a favore dell’individualismo senza limite, dal disinteresse per il bene comune, la lealta’ istituzionale del rapporto tra il cittadino e lo Stato, e dal conformismo consumista, cause dell’impotenza dell’agire politico collettivo e della politica, destinata ad essere sempre piu’ locale ed insignificante.
Chi avesse tempo e voglia potrebbe sempre provare a declinare queste considerazioni sulla realta’ territoriale provinciale, e vedere come questi concetti si possono applicare o meno alle diverse comunita’ che qui sono state piu’ o meno fortemente e fortunatamente costruite, nel corso del tempo.
Bolzano, 5 luglio 2002.
Giorgio Delle Donne
1Editoriale pubblicato sull'”Alto Adige” il 5 luglio 2002.